Sunday, 30 June 2019 14:16

Gli eredi della Pop art. Intervista ad Angelo Liberati

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E' una sera di Giugno. Mentre Cagliari si staglia su un cielo dorato, mi insinuo tra le storiche vie anguste della zona “Castello”, fino a raggiungere la Galleria Siotto, dove sono esposte le opere visive di Angelo Liberati. In Galleria è presente l'Artista, un uomo magro dai folti capelli, che risponde al mio saluto con uno sguardo severo e indagatore. Solo dopo una lunga chiacchierata riesco a motivare quello sguardo penetrante con la capacità dell'Artista di saper guardare analizzando.

La mostra raccoglie le opere sotto il nome di “Stickers”, quasi a suggerirne la caratteristica più rilevante: le immagini che traspaiono dalla tela assomigliano a quei ricordi che si ripropongono in modo violento alla mente. Di fronte alle tele di Liberati, così come accade durante tali epifanie, è difficile rimanere indifferenti.

 

Angelo Liberati, la tua formazione inizia a Roma negli anni Sessanta, mentre nel Settanta ti sei trasferito in Sardegna. In che modo ha influito nella tua elaborazione artistica il confronto con un nuovo contesto sociale e culturale?

Mi sono trasferito definitivamente a Cagliari nel 1970, ma frequentavo la Sardegna dal 1965; è da quel momento che ho iniziato a seguire la realtà e i problemi della Sardegna. Il mio punto di riferimento restava ovviamente Roma, ma non mettevo a confronto i due ambienti, tutt'al più verificavo la qualità delle arti visive nell'Isola.

Gli anni tra il 1965 e il '70 mi hanno permesso di capire che Cagliari mi andava bene, è una città medio grande con buone caratteristiche culturali. La mia prima mostra si era tenuta nel 1968, nella galleria “Il Pennellaccio”. A quel tempo questa galleria era abbastanza in linea con tutte le galleria d'Italia, già dal '65 in Sardegna erano presenti artisti di un certo spessore. Il Pennellaccio era il posto in cui si potevano incontrare tutti, sia i giovani che gli anziani; come Foiso Fois. Foiso, come Renato Guttuso a livello nazionale, è stato l'unico a utilizzare un linguaggio dell'arte coerente con le condizioni di quegli anni. In questo spazio ho realizzato le frequentazioni più proficue: Gaetano Brundu, Tonino Casula, Primo Pantoli. A Cagliari ho trovato un terreno fertile per arricchire quella che era già la mia professione in ambito romano; infatti, se si guardano le mie prime opere si può capire da quale scuola provengo, e questo significa che un certo modo di fare pittura stabilisce un linguaggio e che, tramite il modo di organizzare segni e colori nella superficie, possiamo stabilire la provenienza di questo linguaggio.

 

Spesso le tue opere accolgono riferimenti ad altre arti come il cinema, la musica o la letteratura. Attraverso quale processo riesci a condensare in un'opera questi diversi stimoli?

É abbastanza complesso e semplice. Viviamo in un'epoca in cui le informazioni arrivano subito e tutte insieme. Anche quando ero giovane, recepivo comunque una valanga di informazioni. Gli artisti aggiornati, che avevano le antenne puntate per acquisire quello che succedeva in Italia e all'Estero, avevano colto al volo importanti segnali. Alcuni artisti delle generazioni anni Trenta e Quaranta hanno conosciuto quella che io chiamo “ancora di salvataggio”, per non rimanere impantanati nel Realismo, ancora imperante. Si è potuto iniziare a portare in superficie più momenti della realtà quotidiana.

 

La Pop-art è stata un'”ancora di salvataggio”?

É stato l'arrivo in Italia della Pop-art americana a indicare l'altra via d'uscita dal linguaggio realista.

L’evento che sugellò questo incontro fu la Biennale di Venezia del 1964. A Robert Rauschenberg andò il premio come miglior artista straniero. Da quel momento, tutta l'arte risentirà del coinvolgimento con la realtà quotidiana, perchè la pop-art sprigiona la realtà, mediata dai mezzi di comunicazione.

Lo scossone principale arrivò con la cultura delle immagini a colori. E così si profila la necessità per la pittura di essere altro: non solo essere contenuto, ma anche forma. Così, negli anni sessanta, le mie opere hanno mediato questo mondo ricco di immagini. E con l'arrivo delle riviste patinate, è possibile attuare il cosiddetto “transfer drawing”, ovvero trasferire le immagini da un supporto a un altro. Le suggestioni arrivano dal cinema, dalla musica, alla pubblicità. Ricordiamo un nome per tutti: Armando Testa.

 

Osservando i tuoi lavori, sembra che si racconti una storia attraverso dei “fermo-immagine”, come il ritmo discontinuo di un percorso tra i ricordi. In questa mostra, quali storie stai raccontando?

Oggi piace molto parlare di “narrazione”, e tutti vogliono una storia.

La storia che c'è dietro le mie opere è quella di due generazioni, degli anni Trenta e Quaranta, le quali hanno fatto in tempo a vedere la trasformazione in modo vertiginoso di una parte del mondo occidentale. Nei miei lavori ci sono le testimonianze di queste trasformazioni. Testimonianze che potevano essere insignificanti, ma affascinanti allo stesso tempo. In egual modo mi sono servito di importanti testimonianze, declinate con riferimenti a Luchino Visconti, Bernardo Bertolucci, Michelangelo Antonioni... Ho riportato inoltre un passaggio del testo di uno dei migliori semiologi dell'epoca, Emilio Garroni, o ancora citazioni di Bob Dylan, Leonard Cohen, Nick Drake...

 

Continui ancora oggi a “studiare” i pittori che ti hanno preceduto; se sì, quali autori stai prendendo in considerazione ultimamente?

Certo che sì. Le letture che prediligo sono i volumi sintetici ma pregnanti, come quelli di Angela Vettese: informa con un linguaggio aggiornato, non sempre facile. Un po' la contraddizione di Renato Guttuso, che va inteso come esempio a proposito dell'eterna discussione tra contenuto e forma. Tutto mi piace, e leggo con molto interesse riviste che ormai stanno morendo. Questo è il dramma.

 

Secondo te, esiste oggi arte d'avanguardia?

Certo. Esiste come esiste l'arte contemporanea. L'arte d'avanguardia emerge dalla superficie dipinta come non siamo abituati a concepirla, ciò non mi impedisce di prestare attenzione a forme d'arte visiva e mostre organizzate in spazi di nicchia, che usano i materiali che non uso, o i supporti che io non uso.

 

 

 

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