Il dibattito sull'identità artistica (o meno) della fotografia porterà, nella seconda metà dell'Ottocento, a due tesi: la prima, sostenuta da Baudelaire e dai simbolisti, secondo cui l'arte è un'attività spirituale e non può essere sostituita da un mezzo meccanico; la seconda, portata avanti dai realisti e dagli impressionisti, riconosce un problema di visione che si risolve distinguendo nettamente le funzioni dell'immagine fotografica da quelle dell'immagine pittorica. Da questa tesi nascerà la pittura liberata dal compito tradizionale di “raffigurare il vero”. In effetti, anche la fotografia non propone la realtà “com'è”; allo stesso modo del pittore, il fotografo è mosso dalle proprie inclinazioni estetiche, dalla scelta dei soggetti e dei motivi: l'occhio della camera è parziale quasi quanto quello umano.
E' osservando le fotografie di Guido Costa (Sassari 1871, Cagliari 1951) che mi convinco come la fotografia possa rivelare qualcosa di più di una oggettivazione incontestabile. La fotografia conserva l'impressione di un attimo, quella che scorre nella mente durante un battito di ciglia, ed è quasi sinestetica: uno spontaneo mormorio risuona nello spazio in lontananza, e, così come nei dipinti di Monet e Renoir, non è difficile immaginare il rumore leggero del mare. Oltre che un paesaggio tipicamente en plein air, forse è l'interesse totale per i soggetti che avvicina questo scatto di Costa ai maestri dell'impressionismo.